A parte il fatto che l'argomento è molto interessante per me che adoro bere un bicchiere a tavola e sapere…
Il lato oscuro del Glamour! Quando l’ultima tendenza ti costa il pianeta (e la dignità di qualcuno…)
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Il lato oscuro del Glamour! Quando l’ultima tendenza ti costa il pianeta (e la dignità di qualcuno…)
L’industria della moda pur essendo un pilastro dell’economia globale e un’espressione di cultura, porta con sé un peso ambientale (è il terzo settore più inquinante a livello globale) e sociale significativo, in gran parte radicato in un processo storico di delocalizzazione produttiva.
Questo fenomeno non è casuale, ma è la diretta conseguenza di cambiamenti economici e sociali iniziati, in modo più marcato, nella seconda metà del XX secolo.

L’Italia, con la sua tradizione sartoriale e l’eccellenza nell’arte di fare vestiti ereditata da secoli di maestria artigiana, ha visto un progressivo spostamento della produzione verso paesi esteri.
I motivi sono molteplici e interconnessi, come l’aumento dei costi della manodopera dovuto all’innalzamento degli standard di vita in Italia e in altri paesi occidentali che hanno reso meno competitive le produzioni interne a fronte dei mercati emergenti.
La globalizzazione e liberalizzazione commerciale, hanno facilitato il movimento di capitali e merci, rendendo logisticamente ed economicamente vantaggioso produrre dove i costi (in particolare quelli della manodopera e delle materie prime) erano inferiori.

Inoltre, l’ascesa del “Fast Fashion”, fenomeno che si è affermato grazie alla domanda di capi d’abbigliamento a basso costo che insieme alla necessità di cicli di produzione rapidi e frequenti, hanno imposto una ricerca ossessiva di riduzione dei prezzi.
Esigenza che ha reso i paesi in via di sviluppo, con le loro infrastrutture e normative meno stringenti, la risposta a questa esigenza.
Questa dinamica ha trasformato la filiera, delegando le fasi ad alta intensità di manodopera (taglio, confezione e finissaggio) a paesi come il Bangladesh, l’India, la Cina, il Pakistan, mentre in Occidente sono rimasti i segmenti ad alto valore aggiunto (design, marketing, distribuzione).

L’impatto della moda sull’ambiente è vasto e si manifesta in ogni fase del ciclo di vita del prodotto;
Emissioni di gas serra: La produzione di materie prime, in particolare il poliestere derivato dal petrolio e il cotone, con il suo elevato fabbisogno energetico (nonché idrico) per la coltivazione e la lavorazione e i trasporti dal luogo di produzione al mercato, generano ingenti quantità di CO2.
Inquinamento idrico e consumo di risorse: La tintura e la finitura dei tessuti sono processi chimici che richiedono enormi quantità di acqua e rilasciano effluenti tossici (metalli pesanti e coloranti) nelle acque, inquinando fiumi e falde acquifere, specialmente nei paesi produttori dove i controlli ambientali sono più blandi o inesistenti.

Rifiuti tessili: Il modello del fast fashion incoraggia l’acquisto compulsivo e il rapido smaltimento.
Milioni di tonnellate di vestiti finiscono nelle discariche ogni anno, dove materiali non biodegradabili (come le fibre sintetiche) persistono per secoli.
La spinta alla riduzione dei costi è il motore dello sfruttamento dei lavoratori, che si concentra nei paesi in via di sviluppo.
Per essere chiari, questo sfruttamento si traduce in salari miserevoli, in quanto le aziende produttrici per mantenere una elevata marginalità, riducono i salari degli operai a livelli di povertà, totalmente insufficienti a coprire i bisogni primari.
Le fabbriche in questi paesi (ma i recenti casi di cronaca hanno evidenziato situazioni simili anche in Italia) sono spesso caratterizzate da orari di lavoro estenuanti, ambienti malsani, insicurezza strutturale (come tragicamente dimostrato dal crollo del Rana Plaza in Bangladesh nel 2013) e mancanza di dispositivi di protezione.

Qualsiasi tentativo di organizzazione sindacale, o di protesta, per migliorare le condizioni di lavoro è spesso represso, violando i fondamentali diritti umani e lavorativi.
La moda, così come è stata strutturata nell’era della delocalizzazione e del fast fashion, ha assunto funzione di amplificatore delle disuguaglianze globali, rendendo chiaro che l’onere reale dei costi (ambientali e sociali) ricade sulle comunità più vulnerabili, a beneficio di un consumo “usa e getta” nei paesi più ricchi totalmente insostenibile e inaccettabile, in quanto non suffragato da un reale bisogno.
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Dalia Arablu
Nata a Torre Annunziata nel 1977, studio Chimica Tintoria a Napoli, subito dopo la scuola parto per un anno di apprendimento/lavoro a Londra e da lì si aprono le porte per collaborazioni con aziende estere che mi porteranno a viaggiare per il mondo nei 15 anni successivi. Nel 2021 fondo Devalia-a scientific approach to circular economy, con l’obiettivo di sviluppare progetti di economia circolare, con un approccio scientifico. Le scelte professionali, mi hanno consentito di assecondare una delle mie più grandi passioni: viaggiare, parlare con persone nuove e confrontarmi con culture diverse. Tutto questo si fonde con il piacere di ampliare le prospettive, osservare la natura umana e studiarne le abitudini, cosa che non smette mai di affascinarmi. La svolta consapevole mi permette di assecondare una delle mie esigenze principali, esprimere amore per la natura e cercare di passare più tempo possibile all’aria aperta, a contatto con essa.














