Sulle tracce dell’orso in Lessinia

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Sulle tracce dell’orso in Lessinia

Memorie, leggende e nomi che parlano di un passato selvaggio

Un tempo anche le montagne della Lessinia erano popolate dall’orso bruno, il grande mammifero simbolo della fauna alpina. Questo animale maestoso abitava i boschi fino al XIX secolo, lasciando un segno profondo non solo nella natura, ma anche nella cultura, nella lingua e nella memoria delle genti locali. La sua presenza è documentata da fonti storiche, leggende, racconti orali e toponimi, tutti elementi che testimoniano quanto fosse centrale nell’immaginario collettivo delle comunità cimbre che per secoli hanno vissuto in queste vallate.

Come in molte altre aree alpine, l’orso era temuto per i pericoli che poteva rappresentare, ma anche rispettato e venerato come incarnazione della forza e della natura selvaggia. Una delle testimonianze più suggestive di questo antico legame tra uomo e orso si trova a Campofontana, nella contrada Pelosi.

L’orso dritto davanti alla stele (colonnetta) cimbra in mezzo alla corte.

Qui, su uno stipite in pietra di un vecchio fienile oggi trasformato in abitazione, è scolpita la figura di un orso in piedi davanti a una stele. Non è una semplice decorazione, ma il ricordo di un episodio straordinario, tramandato in una leggenda raccolta dal ricercatore Carlo Nordera e pubblicata nel volume I filò delle nonne cimbre. La storia, raccontata in lingua cimbra, narra di una giovane donna che, una sera, uscì nel cortile per chiudere le galline nel pollaio e si trovò faccia a faccia con un orso affamato. La donna, descritta come astuta e coraggiosa, non si fece prendere dal panico: conoscendo l’antica credenza secondo cui l’orso è attratto dal movimento, iniziò a danzare con l’orso attorno alla stele. Quando fu abbastanza vicina alla porta di casa, fece un balzo, si rifugiò all’interno e la chiuse. Subito dopo liberò il suo cane, che riuscì a mettere in fuga l’animale. La pietra scolpita ancora visibile ricorda quell’episodio e funge da simbolo tangibile di una memoria che sfuma tra il mito e la realtà.

L’immagine dell’orso sulla porta dell’abitazione (un tempo fienile) di proprietà di  Sara Dal Bosco

Il racconto in cimbro dice: “Ime knoupf hausar vun dar Fontàn mo di Belishe ruafan Pelosi, naman vun lautan, ist nau haute ute tur vun ar teice gaschraibat inj, an pilastar pit an per grest tze vuatzan… Si hat gabizzat tantzan pit’me pere umenumme ime pilastar… Disan stoan gadenkat nau haute daz mo hia ist gaschecht.”

La traduzione italiana recita: “Nella Contrada di Campofontana chiamata in italiano ‘Pelosi’, dal cognome della gente, c’è ancora oggi, su uno stipite della porta di un fienile, una scultura su pietra raffigurante un orso ritto davanti a una stele… Lei pensò di danzare con l’orso intorno alla stele.  Quella pietra ricorda ancora oggi ciò che successe in quel luogo.”

Ma la presenza dell’orso in Lessinia sopravvive anche nei nomi dei luoghi. La toponomastica locale conserva numerosi termini cimbri che fanno riferimento al plantigrado, come Perloch (“buso dell’orso”), Perechele (“dossetto dell’orso”), Perkowal (“covolo dell’orso”), Parental (oggi Parentai, “valle degli orsi”, Gonzo di Badia Calavena), Perlaiten (oggi Perlati, Parlatoni,  “riva dell’orso”, contrade a Badia e a Selva di Progno) e Perlaseche (nei pressi di Garzòn, oggi Velo Veronese, che significa “dosso dell’orsetto”). Sono nomi che funzionano come impronte indelebili lasciate sul territorio: tracce linguistiche che ci parlano di un tempo in cui l’orso era parte integrante dell’ecosistema e dell’immaginario collettivo.

Altro particolare nella contrada Pelosi

Anche il nome della contrada Pelosi ha una storia che si intreccia con la leggenda e con la figura dell’orso. Tra gli antichi abitanti germanici di Campofontana, infatti, sono documentati i Bille-mani, ovvero gli “uomini selvaggi”. Questi personaggi sono già citati nell’atto dei Verità del 1407, ma riappaiono anche in documenti successivi, come un testamento del 24 marzo 1529. Il Wildemann, o Bille-man in cimbro, era una figura del folklore medievale germanico e slavo: un essere antropomorfo, ricoperto di peli, che viveva nei boschi più remoti o sulle montagne, spesso rappresentato nudo o vestito di muschio e foglie. Era simbolo del caos naturale ma anche archetipo di forza primitiva, una figura ambivalente che poteva incarnare virtù selvagge desiderabili. Negli atti notarili di Selva di Progno appaiono uomini con il cognome Bilimani, come Valentino figlio di Domenico, Domenico figlio di Giovanni, e Michele figlio di Michele. Questi individui sono gli antenati delle odierne famiglie Peloso. Fu probabilmente qualche solerte curato o notaio a “tradurre” il nome mitologico cimbro, scegliendo come base la caratteristica fisica del Bille-man — il pelo abbondante — per italianizzare il cognome in Peloso.

Homo Selvadego, Sacco di Cosio Valtellino, Val Gerola.

Così, anche se oggi l’orso bruno non abita più le valli della Lessinia, la sua memoria resiste nella pietra, nelle storie e nei nomi. Vive nascosta nei racconti delle nonne, nei pilastri scolpiti, nella lingua antica che ancora echeggia tra le contrade. Sono tracce silenziose ma vitali di un passato selvaggio, in cui natura e mito si fondevano nel quotidiano, e in cui l’eco dell’orso continuava a risuonare, potente, nel cuore delle montagne.

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Stefano Valdegamberi

Stefano Valdegamberi, nato a Tregnago il 6 maggio 1970. Dopo il diploma di Maturità Classica, si è laureato in Economia e Commercio. È conosciuto principalmente per la sua figura di politico-amministratore in quanto già sindaco di Badia Calavena, comune ove risiede con la moglie e i tre figli e, in seguito, Assessore e Consigliere della Regione Veneto. Fin dagli anni del liceo ha sempre coltivato la passione per la storia, la linguistica e la cultura locale. Tra i suoi lavori ricordiamo “I nomi raccontano la storia” (2015), “De decimis novalibus” (2018), “Alle origini degli antichi comuni di Saline, Tavernole e Corno” (2021), “Le origini del linguaggio” (2022). È cultore della lingua cimbra, il Taucias Gareida, un tedesco medievale parlato dai suoi antenati della montagna veronese e tuttora usato da pochissimi parlanti del borgo di Giazza (Ljetzan). Il suo ultimo lavoro “Castelvero, la storia millenaria di un feudo vescovile e dei suoi abitanti”

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